Lontano
da dove?
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"Ma lecchi, lecchi, dunque"
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"Ma lecchi, lecchi, dunque"
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Siamo in Sardegna. Le avventure buffe e drammatiche di un doppio catapultato dalla grande città del ‘continente’ sull’isola di San Pietro, diviso fra una bruciante e sfortunata passione d’amore e i pomeriggi al bar a oziare e a raccontare storie con gli amici, in una serie di episodi uniti dalla misteriosa ambiguità delle vicende della vita. In perfetto equilibrio fra la ricostruzione oggettiva e la trasposizione fantastica, Pegna compone i suoi racconti attorno a un unico tema: l’esistenza provinciale sul palcoscenico minimo di uno straordinario luogo della Sardegna narrata con humour istintivo e assunta come metafora di una vicenda universale, fra una prepotente allegria e una contenuta amarezza. La parabola di un uomo curioso di tutto che si oppone alle frenesie della città della grande isola già avviata verso le ansie del continente, che lotta fra il dovere e la sete di libertà, fra l’amore e l’insopportabilità di qualunque legame, fino alla sua paralisi esistenziale. Un’opera originale, un ironico romanzo di formazione che è anche la più struggente storia di ciascuno di noi. (L.M.) Dal
libro "La Strada per Nèbida", la premessa
RACCONTI LONTANO
DA DOVE ?
"La stanca dolcezza del settembre
gli parve irrealtà,
Colpito dalla sventura un ebreo aveva deciso di fuggire.
Si era disfatto dei suoi pochi averi, aveva preso
commiato da parenti e amici e si era recato dal rabbino
per riceverne l'ultima benedizione e una parola di conforto.
Malgrado una giovinezza scervellata e inconcludente, durante la quale aveva tuttavia coltivato certe sue propensioni del tutto teoriche per le scienze elettriche, con la maturità era giunto ad occupare una posizione di prestigio nel mondo accademico; mondo che, come è noto, non esige dai suoi adepti né il minimo senso pratico, né costanza e sistematicità di impegno produttivo. Si era allora trovato nella necessità di disporre di un luogo tranquillo, lontano dalla famiglia, dove trascorrere le vacanze di Natale, di Carnevale, di Pasqua, i week-end, i ponti lunghi, i Santi e i Morti, gli anni sabatici, i ritiri spirituali, i periodi di svogliatezza scientifica. Stressato dagli "affanni della ricerca", come era solito dire con preoccupazione, sentiva un gran bisogno di requie: cioè di un posto dove vivere da solo, frequentare i pochi amici, trafficare con le sue carabattole elettriche, abbandonarsi ai ricordi, scrivere. Si
comperò allora una casa in un paesino su un'isola. In quel
paese aveva trascorso alcuni anni quando era giovane,
e vi aveva conservato amici fedeli. L'isola, piccolissima,
era situata ad occidente di una delle nostre isole maggiori, ed era separata
da quella da un braccio di mare che i traghetti impiegavano un'oretta ad
attraversare.
Il
palazzo doveva essere stato il più bello del paese.
Affacciato sul mare, di linea severa, senza fregi o abbellimenti
leziosi, trasmetteva un'idea di solidità e di eleganza
discreta. All'altezza del primo piano lungo tutta la facciata correva un
lunghissimo balcone, con una ringhiera di ghisa a grandi cerchi intrecciati
con foglie di acanto. Dal centro della ringhiera sporgeva
il ferro ad anello per l'asta della bandiera: in certe vecchie
fotografie si poteva vedere una grande bandiera sventolare in cima ad un'asta
straordinariamente lunga, mentre ad alcune finestre erano affacciate giovani
donne bionde rivolte un po' di fianco, con la mano alzata a ripararsi
gli occhi dal sole, e forse in atteggiamento di saluto verso il fotografo.
Ma
aveva acquistato quella casa soprattutto per la soffitta. Grande,
alta, tutta di legno, con i travi del tetto in vista.
Piena di vecchi bauli zeppi di roba, casse chiodate, cappelliere, cassette
di attrezzi antichi, seggiole rotte, un vecchio sommier, un manichino di
donna, vasi da notte, boule di rame per l'acqua calda, quadri anneriti.
Pregustava anni di lente ricerche, di caute
esplorazioni centellinate e fatte durare, l'ansia di
possibili scoperte, l'emozione di ricostruire dai relitti degli oggetti
in abbandono abitudini, gusti, caratteri, vicende di centocinquant'anni
di altre vite. E poi cassettine di legno piene di parti di
ottone: vecchie maniglie, pomelli di catenacci, lucchetti
senza la chiave, viti, meccanismi di orologi, giranti di pompe, manovelle
di macchine per le tagliatelle. In un angolo, appoggiate al
muro, le aste forate di un telaio per tessere, per terra
dei fagotti di iuta legati con rozzi spaghi di canapa.
Partì così per un lungo viaggio di studio intorno al mondo che doveva portarlo, nel giro di un anno, a visitare il Nepal, l'India, La Cina, Genova, due o tre castelli scozzesi, i magazzini del Cremlino. Malgrado lusinghieri inviti ricevuti da alcuni specialisti decise di trascurare gli Stati Uniti, terra di parvenu dai molti mezzi ma di scarse tradizioni e cultura. Toccò Coeten, Lipsia, Koenigsberg e Dwingeloo; a Salonicco riuscì, corrompendo un guardiano, a visitare le soffitte di un rivendugliolo ebreo di nome Pugin De Goa (4), famose nell'ambiente; travestito da operaio della SIP si insinuò nei sotterranei del Vaticano; per la modesta somma di due sterline e venti pence poté visitare a suo agio una delle istituzioni inglesi più rinomate nel mondo dei rigattieri: le soffitte segrete di Lord Rayleigh recentemente scoperte a Camden Town; con l'aiuto di una banda di ladri veneziani penetrò nottetempo in una catacomba di Bisanzio, dove poté vedere, fra i primi al mondo, la ubiqua brocantage Alterocca ipotizzata dallo Herschel, colà celata da più di cento anni. Toccò poi Aleppo, Eubea, Smirne. A Samo fu raggirato da un venditore di vasi falsi; a Bagdad fu derubato della macchina fotografica; a Rodi gli rifilarono un pezzo di lamiera di ottone tutta incrostata di cozze e denti di cane (5); a Cnosso si perse nel labirinto e dovette ricorrere al telefonino per farsene tirare fuori. Visitò il Buthan, Goa, Macao; attraversò la Mongolia interna, il Sichuan, il Guizhou. A Wuzhou acquistò per 100 dollari un'intera soffitta della dodicesima dinastia. Compì il viaggio di ritorno con una trentina di pesanti casse piene di ciarpame proveniente dai pattumai di tutto il mondo. Arrivato
in Italia, invece di passare in famiglia proseguì subito
per l'isola, con l'ansia di rivedere la sua casa.
Sul traghetto non andò a godersi dal ponte, come era solito, la
vista della terra che si avvicinava, ma si rintanò in
un angolo del saloncino per crogiolarsi fino all'ultimo nella
dolce attesa dell'appagamento imminente. Percorse il tratto dall'imbarcadero
alla casa con gli occhi chiusi e umidi, in uno sdilinquimento di
felicità. "Strano come si possano amare le cose molto più
delle persone", pensava. Varcata la soglia del portone, fece tre passi,
si inginocchiò e baciò l'ardesia del primo gradino. "Finalmente
a casa, finalmente nella mia soffitta". Pianse dolcemente per
un attimo. Poi salì le scale.
Riprese
conoscenza due giorni dopo in un lettino del pronto soccorso del
paese. Stava bene, fu dimesso. Si rivestì, uscì. Un
amico incontrato per strada gli disse che la moglie e la figlia,
approfittando della sua assenza, per fargli una sorpresa avevano
deciso di ingrandire la casa, di ricavare un piano in più
dalla soffitta, per quando avessero voluto trasferirsi tutti a
vivere lì. La soffitta era stata svuotata,
gli oggetti dispersi, regalati, buttati via.
Ogni
tanto giungono notizie, non si sa quanto attendibili. C'è
chi sostiene di averlo riconosciuto mentre, in turbante
e caffettano, apostrofava i passanti dalla soglia di un negozietto
di chincaglierie di ottone nella casbah di Algeri; chi dice
di averlo visto competere ferocemente da Sotheby's a Londra per
un ricevitore a coherer Marconi del 1902, un pezzo unico di immenso
valore storico; e c'è chi afferma di averlo incontrato nel
porto di Hong Kong, dove si aggirava male in arnese cercando di vendere
ai marinai di passaggio dei falsi videoregistratori Sony,
tax free. Uno che si vantava di averlo
conosciuto intimamente sostenne sempre di essere l'unico a sapere
la verità: secondo lui viveva ormai a Napoli,
in una casa equivoca, dove si era abbandonato
ad una degradante debauche senza ritorno in compagnia di una sventurata.
Veniva ospitato per carità nella soffitta, che
aveva riempita fino alle travi di ogni sorta di ributtante
immondezza.
NOTE (1) Durante quegli
scioperi avvenne un episodio che è rimasto oscuro.
Una mattina uno dei grandi velieri francesi
adibiti al trasporto dei minerali, ormeggiato in
porto, iniziò ad affondare. Si precipitarono tutti vociando al molo
per cercare di salvarlo. Tolti gli ormeggi, il veliero fu portato
ad arenarsi in acque basse. Lì fu possibile accorgersi
che alcune tavole del fasciame dell'opera viva erano state
divelte dolosamente. La falla fu riparata, salvando la nave. Ne seguirono
accuse roventi, del comitato di agitazione contro i padroni,
di azione provocatoria; e dei padroni contro gli scioperanti,
di sabotaggio.
TENDER PER JULIA
Era forse il 1959 o 1960, e mi ero messo in testa di costruirmi una barca in casa. Avevo quindi sgomberato una stanza del mio studio al quarto piano di Via Lamarmora, e, secondo l'uso dei vecchi maestri d'ascia, avevo iniziato con l'impostare la chiglia per terra, ben fissata con una doppia fila di chiodi d'acciaio piantati fra le fessure delle mattonelle. Dopo avere preso bene tutte le misure, ben conscio del pericolo di non riuscire poi a fare uscire il manufatto, risultò che la barca doveva avere una lunghezza di circa due metri e una larghezza di uno, sufficiente per lo scopo che mi aveva fornito il pretesto per l'impresa, che era quello di poter disporre di un tender, o barca di servizio, con cui raggiungere dalla riva la Julia, che tenevo ormeggiata in una rada nei pressi della città. Con la Julia quella estate avevo navigato molto intorno alla nostra isola, e avevo poi partecipato a varie regate nel golfo, unico nella categoria delle barche a vela latina, arrivando sempre un paio d'ore dopo tutti gli altri. In
una di quelle regate, a cui partecipava
anche la bellissima Guia di Giorgio Falk, in transito
per qualche regata intorno al mondo, in una
giornata di maestrale forte era accaduto che lo stesso
Giorgio Falk, volendo mettere alla frusta barca
ed equipaggio, che per l'occasione era stato rinforzato con l'imbarco
del mio amico Franco Gessa, ad un certo momento urlò:
Conducendo
io a quei tempi una vita da sfaccendato senza una occupazione
che tale potesse dirsi, e disponendo quindi di tempo
libero a volontà, iniziai il lavoro di gran lena, intendendo
di concluderlo nel più breve tempo possibile per poter continuare
poi a incrociare sui mari costieri e trascinare il resto
di quella estate in cerca di altre compagnie e
nuove avventure.
Il lavoro
procedeva bene. Un giorno, avendo finita la colla,
ed essendo venuto il momento di comperare anche gli scalmi,
mi recai, come altre volte in quel periodo,
dall'unico fornitore di materiali nautici della città,
che stava nella via più importante,
di fronte al porto. Al negozio vero e proprio si accedeva
attraverso una specie di atrio ad imbuto, fiancheggiato da
due vetrine polverose piene di quadretti di nodi marinareschi,
bandierine nautiche di segnalazione, un campionario
di varia ferramenta, una vecchia elica
di ottone, canne da pesca, e un sestante probabilmente
usato, dall'aria di sobrio strumento scientifico, ben
allogato in incastri foderati di panno verde dentro
una cassettina di faggio rinforzata con angoli di ottone, un oggetto che
da tempo era al culmine dei miei desideri.
Mezz'ora dopo
ero di nuovo sulla strada per andare a comperare la colla e gli scalmi.
Mi avvicinai al negozio con una
certa cautela, poi mi infilai di nuovo nell'atrio. Per terra,
quasi nello stesso punto dove avevo raccolto
la banconota da diecimila lire, ce n'era un'altra. Questa
volta ebbi la freddezza di agire più lentamente. Mi guardai intorno,
mi affacciai per la strada, sbirciai dentro il negozio, in
quel momento senza clienti. La gente, passando sul marciapiede,
guardava le diecimila lire, e proseguiva. Mi venne in mente
fra l'altro di poter essere oggetto di una ripresa di candid
camera, o di qualche scherzo atroce di cui non
potevo intravedere i contorni; pensai anche a un
miracolo, cioè alla realizzazione di uno di quegli
eventi la cui possibilità
di accadimento, pur talmente piccola da non
giocare un ruolo effettivo nelle evenienze del
mondo, non è tuttavia teoricamente e fisicamente
impossibile; come se capitasse che, con la mescolazione, lo
zucchero nella tazzina si riseparasse dal caffè,
per il ripetersi, esattamente al contrario, di tutte le
fasi del processo di dissoluzione.
Raccolsi la banconota, tirai fuori
il portafoglio e ve la riposi ben piegata. Poi entrai nel negozio
e acquistai la colla e gli scalmi, pagando con i soldi
miei.
Aggiunsi quelle due banconote a una diecina di altre che tenevo in una busta, le ultime rimastemi da altre fortune ed altri tempi, esaurite le quali avrei dovuto, anche se non proprio mettere la testa a partito, almeno mettermi di nuovo a qualche attività o occupazione, cosa che ero riuscito a rimandare fino ad allora per infingardaggine, curiosità del mondo e momentanei interessi per cose quasi sempre improduttive. Quando
finalmente la costruzione fu terminata, ne
fui orgoglioso: la barca mi pareva bellissima,
malgrado fosse un po' troppo squadrata e
di forme tozze. Ma era lucida e ben rifinita,
e aveva perfino qualche abbellimento, come i bordi
in acero bianco che bene si intonavano con il colore
bruno rossiccio dello scafo, e la scritta "Tender
per Julia" in caratteri d'oro, che avevo apposta sullo
specchio di poppa, come si usa. Chiamai un amico per farmi aiutare
a portarla giù per le scale e caricarala poi su una macchina.
Usciti dal portone, piegammo a destra per percorrere l'ultimo
tratto in discesa di Via Lamarmora, con la barca sulle spalle.
Passando davanti al bar di "Gianni il Bello", dal gruppetto
di quegli altri perdigiorno che stazionavano
sempre, come stazionano tuttora, un po' sulla porta e
un po' sulla strada, uscì una voce che disse:
Quando
arrivammo al mare per varare il tender, la Julia non c'era
più. Quale fosse stato il destino
del bel "canotto" carlofortino, insieme al quale avevo
vissuto tante avventure sui mari della nostra isola non lo
si seppe mai. Franco Gessa. che era presente, sentenziò:
NOTE (1) Si dice
che, da par suo, Falk pagò puntualmente
le duecentocinquantamila lire; ma, avendo per ciò
preso in uggia Franco Gessa, non mantenne
la mezza promessa che gli aveva
fatto, di assumerlo e di portarlo con
sé nella stagione di regate intorno al mondo che
andava ad iniziare.
MA LECCHI, LECCHI, DUNQUE!
L'uomo è un animale simbolico.
L'antefatto.
Nella notte del 9 Settembre 1902 Guglielmo Marconi, a bordo della
corazzata Carlo Alberto in navigazione da Cagliari a
La Spezia, riceveva dalla stazione inglese di Poldhu, distante 1540
Km, uno storico messaggio. Quei deboli segnali avevano superato
terre emerse, montagne e continenti; la straordinaria ricezione
costituì un record di distanza che entusiasmò ancora una
volta il mondo, in quella favolosa epoca di invenzioni meravigliose,
di pionieri solitari, di scoperte rivoluzionarie. Entusiasmò
un po' meno gli scienziati, che erano appena
pervenuti a dimostrare con il calcolo che
quelle distanze non avrebbero mai potuto neppure lontanamente
essere raggiunte: primo fra tutti il grande Poincaré,
che ne fece oggetto di una brillante comunicazione ad uno dei primi congressi
Solvay.
Mancando dunque a tal punto di materia prima, gli storici locali, nelle persone di alcuni pervicaci professori di liceo in pensione, o di alcuni altri tenacissimi maestri elementari che non meno dei primi si intestardiscono nelle attività storico-ricostruttive, sempre in competizione fra loro, si sono da sempre e a maggior ragione accaniti nello scovare episodi e avvenimenti dimenticati da tutti - scarsamente o per nulla documentati - arrivando talvolta a inventarli di sana pianta, pur di pubblicare, in genere a.p.s. (a proprie spese) qualche opuscolo presso uno dei furbi editori locali. Così. Elegante
e curato in ogni circostanza, teneva molto al suo aspetto,
rasentando la vanità. Le fotografie ce lo
mostrano sempre elegantissimo; perfino in quella famosa
che lo ritrae mentre sta sperimentando con i suoi
apparecchi a bordo di una specie di sporco rimorchiatore: Marconi
indossa la marsina; ha in testa un elegantissimo Borsalino "diplomatico"
a cupola alta, lo stesso che in seguito portò sempre Churchill,
grigio chiaro con fascia leggermente più chiara, ton sur ton.
In viaggio attraverso gli Stati Uniti
dopo il grande successo della prima trasmissione
attraverso l'Atlantico, fu invitato dal "mago" Edison a fargli
visita nel suo laboratorio - "la fabbrica delle invenzioni"-
a Menlo Park. Edison era famoso per essere molto distratto
e assai trasandato. I due inventori trascorsero l'intera mattinata
assorbiti nella discussione di importanti questioni tecniche.
Verso le due Marconi aveva fame.
Uno
dei succitati smaniosi maestri elementari era un tipo malinconico,
allampanato e pallidissimo, un po' svaporato a causa dei molti
digiuni e del troppo studio. Accadde un giorno che costui,
frugando in mezzo alle cianfrusaglie esposte su
una bancarella, si ritrovò fra le mani un volumetto
squinternato e senza antiporta. Sfogliandolo, vi fece
la scoperta che doveva cambiare la sua vita.
Marconi
era spiritoso. A bordo della Carlo Alberto, il
bell'incrociatore messogli a disposizione dalla Marina Italiana
per compiervi esperimenti sulla propagazione delle onde
radio, una notte di burrasca stavano tutti male.
Ma non il coriaceo ammiraglio Mirabello, che nella cabina radio
fumava un toscano traendone dense boccate di fumo, ammorbando
l'aria come solo quei pessimi sigari sanno fare
e disturbando assai l'inventore, alle
prese con ogni sorta di
strumenti delicatissimi, e rivelatori e soccorritori
e galvanometri e ponti di Wheatstone, d'una
fragilità estrema. Marconi stava proprio allora
apprestandosi a ricevere il famoso messaggio per il quale Cagliari sarebbe
passata alla storia.
Acquistò
il libro, pagando senza discutere una
somma spropositata all'astuto venditore che si era accorto del tremito
convulso delle mani dello studioso. Tornò a casa a piedi camminando
come in sogno, dimenticandosi della macchina che aveva lasciata
parcheggiata in via Anfiteatro. La mattina
dopo la ritrovò senza ruote, appoggiata
su quattro mattoni, e senza fari, ma non
se ne adontò. Lesse e rilesse quel libro, e quelle
magiche parole: "R.N. Carlo Alberto, in navigazione da Cagliari a
Spezia....", e tutte le volte si commuoveva. Iniziò
per lui, se possibile, un periodo di privazioni ancora più
dure. Saltando spesso i pasti e privandosi di ore di sonno, lesse
tutte le biografie di Marconi che riuscì a
procurarsi nelle biblioteche cittadine. Ma si accorse
presto che esse erano vaghe, approssimative, e quando non erano copiate
l'una dall'altra erano fra loro in disaccordo, specialmente
sull'episodio dal quale anelava all'immortalità.
Marconi
era un gran donnaiolo, e per questo a volte
si trovava più legato di quanto
i suoi impegni potessero permettergli.
Ma almeno una volta il fatto di corteggiare una gentile
signorina gli agevolò una importante
innovazione scientifica.
Durante tutte queste ricerche e peregrinazioni, fece per caso la conoscenza con un ricercatore di Fisica, appassionato di storia degli strumenti scientifici, che si stava occupando in quel periodo della ricostruzione dei primi apparecchi di Marconi allo scopo di mettere in luce alcuni aspetti poco chiari del loro funzionamento. Il fisico all'inizio lo trattava con molta condiscendenza. In seguito, commosso da tanta dedizione ad una causa che pensava nobile, prese a riceverlo di tanto in tanto. Gli faceva vedere gli apparecchi, e gli spiegava come il successo della ricezione a Cagliari di quel famoso messaggio, con quegli apparecchi e in quelle condizioni, fosse ancora oggi difficilmente spiegabile. A poco a poco maturò fra i due uno strano sodalizio. Una sera in cui avevano dato fondo ad una intera bottiglia di un venefico infuso alcolico di produzione locale, divenuto allora di gran moda, concepirono la grande idea: riprodurre dopo cento anni quello storico esperimento, in una pubblica manifestazione commemorativa da tenersi al cospetto delle massime autorità civili, militari e religiose. Il momento era perfetto: si stava avvicinando il centenario dell'invenzione della radio. Da quel momento si dedicarono a quella nobile missione con fervore fanatico. Un'altra volta giunsero in motoscafo alla spiaggia dell'Hotel Haven due amiche di Marconi: una era giovane e bella, l'altra era di età e sesso indefinibili. Marconi le ricevette insieme al marchese Solari, che in quel periodo seguiva le sue ricerche per conto del governo italiano. Marconi si accaparrò subito la bella, lasciando Solari alle prese con l'altra. Naturalmente furono subito condotte a visitare la stazione radio, dove Marconi tutto sorridente, cortesissimo, volle esibire ciò che si faceva lì. Radiotelegrafò alla stazione di Santa Caterina, nell'Isola di Wight, dando l'ordine di trasmettergli subito due messaggi a piacere, uno sull'influenza esercitata da una bella donna, l'altro su quella esercitata da una bella giornata di sole. Finito di ricevere il primo, Marconi staccò la striscia dalla macchina telegrafica e la porse alla bella signora, che leggendola sorrise meravigliosamente all'inventore. Il secondo messaggio diceva: "When the wind blows from the South. I like a ripping girl" (2) (erano rozzi marinai). Lo scherzo non piacque alla compagna di Solari, che non sorrise affatto. Neanche questa volta sappiamo come andò a finire con la bella signora. Mentre il fisico si occupava della ricostruzione degli apparati d'epoca, l'allampanato trascorreva notti insonni a progettare, a scrivere memoriali, petizioni, lettere di intenti, pressanti inviti, suppliche. Prese contatti con istituzioni storiche e umanistiche in tutto il mondo. Coinvolse capitani di industria e discendenti degli schiavi neri americani, membri dell'aristocrazia nera papalina e fuorusciti dalle brigate rosse. Millantando mezze promesse per adesioni già ottenute mise in piedi una confusa, complessa, pazza costruzione basata sul montaggio e fotocopiatura di fotocopie di fotocopie di fotocopie...da esibire ad alti prelati e a presidenti di istituzioni umanitarie, a presidi di facoltà scientifiche e ad artisti in first person, a ministri e a teatranti di strada. Creò a tale scopo dal nulla una entità vaga, chiamata Well Being, che presentava di volta in volta come ente, consorzio, lega operaia, centro interdipartimentale, incorporated, associazione, confraternita, loggia. In nome del "binomio arte-scienza", come diceva lui, coinvolse artisti senza mercato e scienziati senza fantasia. In una ventosa
giornata del Settembre 1995, si giunse dunque alla commemorazione a Cagliari
del centenario della radio. La manifestazione era stata promossa
dal centro "Well Being" dell'Università di Cagliari in collaborazione
con la Marina Militare Italiana. Essa era una di quelle previste
dal calendario delle celebrazioni marconiane coordinate
su scala mondiale dalla Fondazione Marconi su mandato del
Governo Italiano e sotto gli auspici
delle maggiori istituzioni internazionali. Cagliari - "Marconi Well Being
Call", 9 Settembre - 12 Ottobre, riporta cripticamente
il libretto "Cento Anni di Radio", edito per l'occasione dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri. La manifestazione di Cagliari era
stata pensata come ricordo e celebrazione della trasmissione
record avvenuta nel 1902 fra Poldhu e la nostra città.
Fortunatamente aveva ottenuto di svolgersi anche "sotto gli auspici del
Sindaco della Città di Cagliari"; altrimenti chissà
cos'altro avrebbe potuto accadere.
La distanza
che le onde dovevano superare in
quelle condizioni era la massima fino ad allora
tentata attraverso grandi distese di terra: la Sardegna, le
Alpi, la Francia. Era opinione corrente che le onde si propagassero
bene sul mare, buon conduttore di elettricità, ma male
sulla terra. Nell'attesa Marconi regolava gli apparecchi, perfezionava
gli accordi, sempre con quella flemma e quella maestria che riempivano
di ammirazione gli astanti. Nella cabina
degli apparati erano presenti l'ammiraglio
Mirabello e il marchese Solari. Per le regolazioni, lo scienziato
faceva trasmettere da Poldhu delle lunghe serie di "S", tre punti,
e di "V", tre punti e una linea. La ricezione era incerta; Marconi
regolava una bobina, si dava una leccata a pollice
e indice uniti per poi toccare delicatamente
il rivelatore d'onde, regolava di nuovo la bobina. Ma la ricezione
non migliorava. Ad un certo punto l'ammiraglio
Mirabello, spazientito, apostrofò lo scienziato:
All'atto della emissione dei primi segnali, sulla Tavolara saltavano i fusibili, privando le apparecchiature dell'alimentazione. Ammiragli, nostromi, direttori di macchina, cuochi, mitraglieri, marconisti, ufficiali in seconda e in terza, marò, si affannavano per ristabilire le alimentazioni, chi sostituendo fusibili, chi stendendo altri cavi verso le interiora della nave, chi avviando generatori di emergenza, sgomitando e intralciandosi a vicenda, in una sequenza di ordini contraddittori. Taluno prendeva a scrutare il volo dei gabbiani, onde trarne auspici. Per le frenetiche chiamate, le batterie dei radiotelefoni di bordo si scaricavano, e le comunicazioni fra le navi si interrompevano. Nel frattempo inopinatamente la Tavolara salpava, allontanandosi con la velocità di un motoscafo e sparendo dalla vista e dalla portata delle apparecchiature marconiane in una ventina di secondi. A bordo della Elisabeth regnava altrettanta confusione. I cameramen non sapevano cosa riprendere, mentre i martelletti delle macchine Morse battevano in modo scoordinato non si sa per quali segnali captati dalle stelle. Come aveva fatto Marconi nel 1902, quando lo Zar si era recato in visita sulla Carlo Alberto e i ricevitori non volevano saperne di captare nulla, anche sulla Elisabeth era stato istallato, nascosto in plancia, un piccolo trasmettitore di emergenza: il pubblico avrebbe visto così che qualcosa veniva comunque ricevuto. Dato l'ordine di azionare il trasmettitore civetta, anche sulla Elisabeth saltavano le alimentazioni. A questo punto il pubblico cominciava a rumoreggiare. Un animoso spettatore prendeva allora in pugno la situazione, e si metteva a fabbricare condensatori con le stagnole dei pacchetti di sigarette, e a inserirli nei delicatissomi apparecchi, convinto di riuscire così a farli funzionare. Ognuno ha i suoi modelli: nel 1928 il radiotelegrafista Biagi riuscì ad aggiustare la radio che si era rotta nella caduta disastrosa del dirigibile Italia sulla banchisa, costruendo un resistore con la mina di una matita. Dopo un
po' si ottennero finalmente dei buoni segnali, e tutto sembrava
procedere bene. Ma ad un tratto la macchina Morse si arrestò.
All'imbrunire il povero scienziato, che è anche, come ormai avrete capito, l'autore della presente cronaca, aiutato dai suoi assistenti, smontava tristemente tutte le apparecchiature, fragilissime, frutto di anni di appassionato lavoro, riponendole nelle loro lucide scatole di mogano. Malgrado tutto, dalla nave Tavolara un messaggio era stato effettivamente affidato alle "onde eteree", con gli stessi segnali crepitanti dei trasmettitori a scintilla che Guglielmo Marconi dovette udire quella notte del 1902 nel nostro stesso porto. Bene o male, fra enormi difficoltà, esso era stato ricevuto anche sulla Elisabeth. Due o tre professoresse di mezza età, come ebbero a dichiarare in seguito, in quello che secondo loro era il momento culminante si erano sentite quasi sopraffare da un'emozione intensissima, mai più provata da anni, ed erano state sul punto di abbandonarsi svenute fra le braccia del primo sconosciuto. Non altrimenti accadeva nel Panthéon, a Parigi, alle pubbliche dimostrazioni della rotazione della Terra che Foucault dava ad ore fisse, due volte la settimana: ingresso 20 Franchi dell'epoca: anche la scienza deve dare qualche profitto. Gli inviti a tali dimostrazioni, calcografati in verde pallido con una bella cornice in stile pre-floréal, oggi valgono un capitale (3). Fu solamente
dopo avere costruito una copia identica di un ricevitore Marconi
a coherer del 1902 che mi resi conto del perché
Marconi facesse l'operazione che dà il titolo
questo scritto, e di quanto poi l'esortazione dello stizzoso ammiraglio
fosse sia tecnicamente assurda che fastidiosa per lo scienziato.
Il quale si trovava perciò in una situazione non rara in questi
casi: di colui che sta facendo un lavoro delicato, che richiede
la più grande attenzione, che solo lui sa fare, e per
di più per gentilezza, o per riguardo,
è costretto a sopportare consigli sballati dagli
astanti ignoranti.
A testimonianza
della storica ed emozionante ricezione il nastro della
macchina Morse è ora custodito al sicuro
nella cassaforte della Elisabeth sotto la
vigilanza del solerte comandante Dernini.
Noi umani siamo una specie singola
e interdipendente,
(Dichiarazione
conclusiva della 37a Assemblea
della Organizzazione Mondiale della Sanità).
NOTE (1) È stato possibile ricostruire
la storia completa di quel messaggio solo
recentemente.
We
are a single, interdependent, worldwide specie.
Bibliografia. |